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Le miniere di Pestarena

Cultura, Miniere

Scopri Macugnaga

La ricerca dell'oro nella Valle Anzasca: dal mito alla realtà

Le miniere di Pestarena non sono visitabili, ma volendone mantenere la memoria riportiamo alcuni passi riguardanti la sua storia.

Secondo la tradizione, i primi a ricavare l’oro dai filoni minerari dell’Alta Valle Anzasca sono stati i Romani o i Celti, i quali scoprirono il Passo del Monte Moro. Tuttavia, nel trattato di pace del 1291 ad Armenzello, si fa riferimento agli homines argentarii, o minatori, che usavano il mercurio per estrarre l’oro. Questi “uomini dell’argento” erano descritti come abili nell’estrarre il prezioso metallo ma anche spregiudicati nel rapinarlo a viva forza. Inoltre, sembra che si spingessero fino ad Alagna attraverso il Passo del Turlo. Non è noto con certezza chi sfruttò per primo i giacimenti auriferi di Pestarena.

Con l’avvento del capitano ventura Facino Cane nel 1400, inizia l’epoca della gestione razionale dei giacimenti auriferi. Facino Cane e i suoi discendenti si dimostrarono abili coltivatori delle miniere, grazie alla loro eccellente capacità di trattare il minerale a fuoco, diventando ben presto ricchi e dispotici. Dal loro quartier generale nell’Ospizio del Morghen, usavano la violenza per terrorizzare l’intera valle con rastrellamenti sanguinosi. Nel 1425, gli abitanti della valle, stufi delle loro angherie, si ribellarono e li scacciarono, impossessandosi di una grande quantità d’oro. Successivamente, i Borromei ottennero la concessione delle miniere del Duca Gian Galeazzo Visconti, ma la loro scarsa abilità portò a un’attività meno proficua rispetto a quella dei predecessori.

Verso la fine del XVIII secolo, i Borromei persero il controllo della valle, ma mantennero il diritto alla decima sulle miniere. Nel frattempo, l’ingegnere minerario Bartolomeo Testoni, con il suo buon fiuto e dinamismo, assunse la concessione degli scavi e coltivò con successo diversi filoni di Campioli, noti come il Minerone. In breve tempo, egli divenne molto ricco e in segno di gratitudine, donò alla Chiesa Parrocchiale di Macugnaga una grande cornice di legno scolpito e dorato con oro zecchino per il quadro dell’adorazione dei Magi. Un altro capitano minatore, Pietro Giordano di Alagna, proprietario della miniera vicino a Borca, fece una donazione simile.

Il naturalista ginevrino Saussure viaggiò in questi anni e descrisse le miniere principali della zona vicino a un villaggio chiamato Pescerena:

“La Cava del Pozzone del Capitano Testoni era una di queste miniere che Saussure visitò con grande cura. La maggior parte dei filoni era verticale e incrociato, e i nodi erano i gruppi dove si trovavano le maggiori ricchezze. Si racconta che il Capitano Testoni, che era al verde e in debito, fu salvato da uno di questi nodi da cui estrasse 100126 libbre e dodici once di oro puro in ventidue giorni. Tuttavia, il prodotto delle miniere diminuì considerevolmente negli ultimi anni, e l’interesse per lo sfruttamento diminuì costantemente.

Durante i periodi di maggiore prosperità, la sola miniera nella giurisdizione di Macugnaga impiegava fino a mille lavoratori, ma oggi solo la metà è impiegata; i proprietari delle miniere cercano di disfarsene e tutti quelli che ho incontrato, tranne il Testoni, mi hanno proposto di acquistarle. Sembra che le miniere siano generalmente più ricche in superficie che all’interno della montagna, e che il meglio sia già stato estratto.”

Poco tempo dopo, verso la fine del XVIII secolo, l’Amoretti descrive la situazione della zona in modo dettagliato. Egli afferma che Macugnaga è chiamata “mala cunicola”, ovvero luogo di sfortuna, dai condannati che vi furono inviati. In quel periodo, la resa della miniera era di circa 12-18 grammi per quintale. L’autore ritiene notevole il modo in cui venivano scoperti i filoni di metallo: durante le notti buie e tempestose, gli abitanti dei monti osservavano i monti opposti per vedere se vi erano fiamme e scintille. Se individuavano un possibile filone di minerale, iniziavano a scavare al suo interno.

Durante l’epoca in cui le miniere di Macugnaga erano attive, ce n’erano molte di varie dimensioni e importanza. Sotto il Morghen, ad esempio, si trovavano diverse miniere, tra cui il Minerone, il Cavone, la Vena scavata dal parroco Gatti di Ceppomorelli, la Miniera dell’acquavita, la Valletta e alcune altre di minori dimensioni nella Piana dell’oro, in Val Quarazza, in Val Rossa e in Moriana. Sopra il Morghen, invece, il Testoni scoprì un’altra miniera chiamata Pozzone. Nonostante l’audacia delle gallerie, che in alcuni casi raggiungevano il livello dell’Anza, l’infiltrazione d’acqua costituiva il principale ostacolo per l’estrazione mineraria. Una galleria venne addirittura chiamata Pesciera a causa del problema delle alluvioni. Solo all’inizio del secolo scorso venne costruita una galleria di scolo che risaliva la valle per oltre due km., sino all’altezza di Pestarena, centoventi metri sotto il letto dell’Anza, con uno sbocco all’aria aperta.

La possibilità di sfruttare i filoni a maggiore profondità, fino a quattrocento metri sotto il livello del suolo, fu raggiunta con successo grazie all’intento di prosciugare la miniera. Nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento, le miniere passarono nelle mani di una società inglese, che non ebbe molta fortuna. Con l’inizio del nuovo secolo, la proprietà passò ad una società italiana, la Ceretti di Villadossola, che ottenne un discreto utile dalla miniera grazie alle importanti opere compiute, tra cui la creazione di nuove gallerie e pozzi. Le ramificazioni sotterranee superavano i cinquanta chilometri.

Nel 1938 la gestione degli impianti minerari passò alla società statale Azienda Minerali Metallici Italiani, che li sfruttò fino alla chiusura definitiva nel 1954. Negli ultimi anni intorno al ’40 la produzione raggiunse il massimo grazie all’aumento della mano d’opera, ma la gestione dell’AMMI lasciò molto a desiderare in termini di igiene e sicurezza. Questa mancanza di attenzione causò un notevole aumento dei casi di silicosi, con altissime percentuali di mortalità, trasformando la miniera in una vera e propria “miniera di vedove e orfani”.

Il minerale aurifero non si presenta allo stato nativo, ma si trova mescolato alle rocce scistose in filoni di quarzo con tracce di pirite aurifera. La quantità di oro presente è di circa sette grammi per tonnellata, ed in passato veniva estratto tramite amalgamazione. Successivamente, si è adottato il metodo della cianurazione, che prevede la macinazione del materiale roccioso, seguita dalla separazione dei solfuri di ferro e arsenico dalle rocce sterili tramite flottazione. L’arsenopirite, che contiene l’oro, viene poi trattata con cianuro di sodio e potassio, e l’oro recuperato attraverso una successiva precipitazione. Degno di nota è il periodo della guerra partigiana a Pestarena, che richiede un capitolo a parte.

La produzione aurifera venne rallentata con cautela dalla direzione della miniera dopo l’8 settembre 1943, a causa dell’incertezza sul destino dell’oro, che era estratto in quantità di circa 50 km al mese. Si dice che il governo di Salò abbia preso il controllo della produzione aurifera per evitare che cadesse nelle mani del comando supremo tedesco. La direzione della miniera nascose il minerale in una galleria cieca protetta da due enormi porte di ferro e un diaframma di cemento all’ingresso, rendendo l’accesso difficile. L’oro nascosto ammontava a circa 250 kg mescolati a quintali di terriccio. Durante l’inverno e la primavera del 1944 la situazione rimase relativamente tranquilla.

Nel frattempo, alcune bande partigiane di formazione eterogenea si organizzarono in valle e iniziarono a richiedere contributi alla direzione mineraria, dapprima in denaro e poi in bidoni di fango aurifero. Fra i minatori lavorava anche il tenente Giampiero Greco, che comandava una formazione di partigiani autonomi noti come “Tagliamacco”. Con l’intento di evitare che l’oro fosse prelevato con la forza dai nazifascisti o da altri, si accordò tacitamente con la direzione della miniera per recuperare il prezioso minerale dal nascondiglio e trasportarlo attraverso il Passo dei Mondelli in Svizzera, dove sarebbe stato depositato in una banca in attesa di essere restituito all’Italia alla fine del conflitto.

La valle venne bloccata dai partigiani di Tagliamacco dal 20 al 22 luglio, mentre un gruppo di operai smantellava le opere protettive del deposito. Dopo trentasei ore di lavoro ininterrotto, l’oro fu recuperato e trasportato immediatamente verso il confine da oltre cento portatori, sotto la scorta armata dei partigiani di Tagliamacco. L’operazione fu favorita da una fitta coltre di nebbia che la celò da occhi indiscreti.

La produzione di viveri al complesso minerario fu sospesa dal comando tedesco di Domodossola appena venuto a conoscenza del furto dei bidoni nascosti in anfratti della montagna vicino al confine, in attesa delle pratiche relative all’inoltro in Svizzera. Tuttavia, gli eventi si susseguivano rapidamente: l’Ossola veniva liberata dalle forze partigiane che occuparono Domodossola nel settembre successivo, mentre aumentavano le infiltrazioni di partigiani dalla Valsesia, portando a una lotta aperta tra le formazioni.

I garibaldini prevalsero rapidamente sulla fazione opposta grazie alla migliore organizzazione e alla maggiore determinazione nel ricorrere a metodi decisi. Così, in breve tempo, i partigiani valsesiani presero il controllo completo della Valle Anzasca. Tagliamacco fu accusato di tradimento e si unì ad altre formazioni nella bassa Ossola.

In seguito alla caduta della Repubblica dell’Ossola, i comandi nazifascisti tornarono ad interessarsi dell’oro di Pestarena. Una squadra di militi, accompagnata da alcuni portatori, salì al Passo dei Mondelli per recuperare i preziosi bidoni e li riportò a valle. Tuttavia, sembra che in molti di essi la polvere aurifera fosse stata sostituita con dei sassi.

L’oro recuperato fu preso come bottino di guerra dalle SS, trasportato vicino a Milano e poi consegnato alla Repubblica di Salò poco prima della fine della guerra. Dopo la guerra, la produzione riprese ma incontrò diverse difficoltà, compreso uno squilibrio tra i prezzi di costo e quelli di vendita, e la sospensione dei premi di produzione dalla Banca d’Italia. Ci fu un tentativo di eliminare il deficit attraverso l’installazione di un nuovo impianto di trattamento e il potenziamento della ricerca del minerale, ma nonostante la completa ristrutturazione, l’economia del complesso minerario rimase sempre fortemente passiva. L’aumento del costo della mano d’opera non fu compensato da un adeguato aumento del prezzo dell’oro. Dopo diverse vicissitudini, la miniera venne definitivamente chiusa nel 1961.

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